Veniamo al mondo come figli, affidati alle mani e alle cure continue dell’altro. Questo tratto identitario originario rivela due caratteristiche fondamentali della natura umana.
La prima: nasciamo incompiuti, abbiamo cioè bisogno di un tempo lungo prima di giungere a maturità (siamo perciò tempo)
La seconda: per divenire adulti abbiamo bisogno degli altri. La vita, cioè ci arriva non solo gradualmente ma unicamente attraverso le cure e le offerte vitali degli altri (siamo perciò relazione)
Essere tempo ed essere relazione, contrasta con la visione individualistica della cultura oggi imperante.
È urgente perciò recuperare un’antropologia che ci faccia uscire dal deserto in cui la logica del mercato ci ha condotti.
Ci occorre una nuova antropologia che ci faccia uscire dagli inganni e dalle trappole mortifere dell’individualismo e ci sveli come funziona in profondità il vivente, che ci aiuti a decodificare quello che sta accadendo tra di noi e dentro di noi e che sia capace di indicarci nuove piste, sentieri inediti, orizzonti più sensati.
Questa antropologia l’abbiamo già, ed ha una lunga storia. È l’antropologia biblica, definibile del dono, della relazione e dell’ospitalità ed è capace di svelarci la grammatica dell’umano e della generatività. Emmanuel Lévinas, il grande filosofo ebreo, amava dire che “la Bibbia non è un libro che ci porta verso il mistero di Dio, ma verso i compiti umani degli uomini. Solo i sempliciotti ne fanno un’aritmetica teologica.”